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Quella mattina il risveglio fu piuttosto lento. Appena sorti, i primi raggi del sole attraversarono gli spessi vetri della finestrella che affacciava in quel soppalco dove dormivamo, riscaldandoci di luminosità. Mi svegliai gettando immediatamente uno sguardo alle brande, cercando di capire se gli altri ragazzi dormissero ancora.

La notte precedente, a causa dell’aria carica d’umidità, ci eravamo stesi nei sacchi a pelo con ancora tutti i vestiti addosso, quindi non ci misi molto a riuscire da quel guscio caldo. Messi i piedi a terra, infilai gli scarponi e mi avviai alle scale per scendere e poter uscire all’esterno del Mangheneto alla ricerca dell’aria fresca del mattino. Era una giornata stupenda, sebbene fosse una giornata di arrivederci. Arrivederci a Michele che di lì a poco sarebbe rientrato con Filippo a casa, ed arrivederci a questa terra del nord che ci ha accolto come suoi figli regalandoci paesaggi da incanto, che solo i film spesso offrono. Svegliai Michele ed iniziai a preparare thè e caffè per tutti che, lentamente iniziarono a svegliarsi.
Con calma consumammo la colazione seduti sulle panche in legno realizzate all’esterno del bivacco, riscaldati da un sole ristoratore, e ci preparammo a rimetterci in cammino. Ci appariva ormai evidente che non saremmo più riusciti a completare la nostra Translagorai, e dunque occorreva studiare sulla mappa un piano di rientro che, entro un paio di giorni ci avrebbe riportato a Levico. Non senza l’amaro in bocca per il sapore del fallimento della nostra impresa, decidemmo di proseguire verso il Passo Manghen e da lì puntare poi ai Laghi delle Buse e delle Stellune, dove avremmo passato l’ultima notte prima di rientrare e prendere la via del ritorno.

Tentammo in ogni modo di ritardare quel momento distruttivo dei saluti, ma ad un certo punto occorreva andare. Ci abbracciammo forte con la ripromessa che quanto prima ci saremmo rivisti e saremmo tornati nuovamente sulla strada insieme. Il sole era ormai alto in cielo, e faceva brillare i profili di Michele e Filippo che rapidamente scomparvero dietro il crinale che apriva il sentiero verso il Manghen.
Ci rimettemmo finalmente in marcia e iniziammo a discendere i tornanti rocciosi che ci avevano accompagnato nelle nostre giornate tra le montagne selvagge del trentino. Immediatamente, le vesciche ai piedi tornarono ad infiammarsi e a bruciare, ma questa volta meno insistentemente. Il consiglio di Filippo, quell’invito a fasciarci le parti indolenzite con del nastro telato, si rivelò quanto mai prezioso. In pochi minuti incrociammo il cartello segnaletico che ci indicò il sentiero da seguire per il Passo Manghen, attraverso il tratto di bosco che correva a mezza costa lungo il monte Cadino. Arrivammo così a scorgere tra i fitti rami dei pini la struttura in legno e pietre del bar, ristorante, punto di ritrovo di motociclisti, quale era il Manghenutte.

Incorniciato tra le alte pareti del Monte Ziolera, in un’oasi naturale con tanto di lago sorgivo, il ristorante rappresenta la più importante opera di antropizzazione di tutta la catena Lagorai, assestando un duro colpo al volto del fascino e della severità del silenzio di quelle montagne. Ci sentimmo spaesati, per non dir fuori luogo. Appena giunti, camminavamo lenti verso l’ingresso, tra tavolate grandi piene di persone di passaggio, giunte sul posto per pranzare. Entrammo attenti a non fare danni con i nostri ingombranti zaini e ne approfittammo per prendere un panino ed uscire nuovamente fuori per respirare ancora aria pura. Era forse più importante il bisogno primordiale di sederci nuovamente a terra quanto quello di mangiare.

Consumammo così al volo il pasto e ci rimettemmo in piedi, con gli zaini in spalla, riprendendo il sentiero che proseguiva dietro il ristorante. Quel vociare insistente ed assordante era stata come una molla pronta a scattare, tanta ch’era ormai la nostra irrequietezza a sostare più del dovuto. Poiché ormai era il viaggio e la ricerca a spingerci e non più la semplice destinazione. Cercavamo senza sosta il senso del viaggio, ma perché l’esperienza avesse successo, doveva necessariamente essere perpetua, e così non smettemmo di essere nomadi in una terra ed in una società sedentaria.

Era il primissimo pomeriggio ed il sole venne coperto da nubi. In lontananza enormi cumulonembi scuri si addensavamo e iniziarono a minacciarci gonfi d’acqua. Minime preoccupazioni che scomparvero non appena sbucammo da una collina che si affacciava sul Lago delle Buse, appena dopo aver superato l’Eterno, arbusto millenario che abbraccia tutt’ora la roccia e che nonostante il tempo resta lì a vegliare il sentiero. Rimanemmo qualche secondo a rifiatare, per poi correre giù per quella collina verso la riva più lontana del lago, come bambini morsi dalla taranta, pazzi di felicità e schizofrenici nei movimenti, resi goffi dalle zavorre, ma desiderosi più del pensiero, d’immergersi in quelle acque. Quando sentimmo dentro d’aver trovato il nostro posto al sole, senza badar troppo a chi ci fosse, ci tuffammo in mutande in quelle acque gelide ad oltre duemila metri in quota. Cosa poteva desiderare di più l’essere umano se non essere immerso nell’essenzialità pura della natura.

Essere lì, in quel posto ed in quel momento era una rivincita contro gli affanni di un anno intero passato a seguire i confini di schemi mentali che ci imprigionano in vite senza linfa, rese sterili ed uniformi dalle logiche globali del compra-usa-getta che abbiamo imparato a riproporre in rapporti umani superficiali. In quelle acque fredde, con il pantano viscido ai piedi e con le alghe abbracciate alle nostre gambe ci sentivamo come essenza. Eravamo noi stessi l’emozione che stavamo vivendo.

Dopo esser usciti dal lago ed aver ripreso calore, fummo come riportati alla realtà, trafitti dal sopraggiungere del maltempo, ora più vicini. Occorreva trovare un posto per poter passare la notte, e con un temporale in arrivo, le rive di un lago non sono di certo il posto migliore. Così io e Peppe decidemmo di prendere mano alla cartina e individuammo come riparo più vicino la Malga delle Buse, poco oltre il lago, scendendo di quota. Ci avviammo lungo il sentiero che conduceva al rifugio mentre le ragazze iniziarono a sistemare gli zaini e a prepararsi per raggiungerci. Passarono circa una ventina di minuti quando fummo finalmente alla malga dove confidassimo di incontrare il pastore per chiedere ospitalità per la notte. Questi però era ancora sul Pergol a controllare le vacche al pascolo, decidemmo allora di rientrare al lago, recuperare l’attrezzatura e ritornare alla malga, sperando in un suo rientro.

In meno di un’ora eravamo tutti di rientro alla malga, dove però scoprimmo di non esser più i soli ad attendere. Con noi, c’era ora una famiglia con bimbi a carico. La presenza di quei bambini avrebbe ridotto drasticamente le nostre speranze di riuscita, ma non lo intuimmo e sperammo che in tanto spazio ci fosse un angolo per noi. Notammo invece la diffidenza di quelle persone che ci afferrò con un nodo alla gola, poiché era un sentimento che ancora non avevamo provato in quelle terre del nord. Lui, uomo sulla quarantina, borbottò qualcosa alla moglie e si avviò lungo la mulattiera che conduceva ai pascoli in quota, mentre lei, occhi severi e lineamenti del viso duri come roccia, si avvicinò per dirci che il marito era salito dal pastore ad annunciarci, vista la lunga attesa.

La sensazione di rasserenamento fu solo illusione. Dopo circa due ore Franco rientrò dai pascoli seguito dalle vacche che avevo notato scendere per la stretta mulattiera, lentamente, che in un primo momento mi apparvero come macchie bianche su tela verde ed ora, ad un passo già da noi. Senza troppi giri di parole la donna si avvicinò per dirci chiaramente che per noi quella sera non c’era posto e che volendo potevamo andare verso un’altra casina di taglialegna, poco distante da lì, e che Franco, il marito, ci avrebbe accompagnato poiché di strada verso il paese a valle.

Stanchi ed in parte avviliti, non perdemmo altro tempo e ci rimettemmo in cammino speranzosi di poterci finalmente fermare di lì a poco. In occasioni come questa, gli imprevisti sono dietro l’angolo, e puntualmente colpiscono nonostante le mille attenzioni. Il motto che mi ha da sempre accompagnato è “Estote parati”, ovvero siate pronti, a tutto, proprio per affrontare anche gli imprevisti con un ghigno beffardo. E così, senza perderci d’animo, attraversammo boschi ed acquitrini, tornando sopra i duemila metri, prima di riscendere vertiginosamente verso valle.

Ormai esausti, ci distanziammo alcune decine di metri l’uno dall’altro, lungo la carrareccia che attraversava il bosco di Pelotto. Sara avanzava davanti a noi con Franco che le apriva la strada, non curante del suo passo fresco e svelto per quei sentieri. Poco più indietro seguiva Peppe, e dietro di lui io, entrambi a far da anello di collegamento tra Sara e Maria e Smè, rimaste invece più indietro. Lo zaino, la stanchezza e l’avvilimento non ebbero però il successo, né seppero infierire in qualche modo alcun colpo ai nostri animi che riesplosero d’euforia, non appena dall’alto del crinale scorgemmo quella piccola casina che ci avrebbe accolto. I rumori meccanici ed il vociare del Manghen erano ormai lontani ed un caldo tramonto ci colorava di rosso, riscaldando l’aria già più umida in quella piccola valle in quota.

Arrivati a Malga Caseratte posammo gli zaini all’interno del cortile recintato da enormi palizzate in legno, e ci sdraiammo a terra, ormai esausti, ma con il sorriso stampato in volto. Ci sentivamo forti e consapevoli che questo pazzo mondo non ci aveva ancora battuto. Non ci aveva superato né fatto impazzire, nonostante tutti i calci presi. Noi eravamo vincenti davanti alla falsa comunicazione, all’avidità del denaro, alla sete di potere e all’amore per la violenza, poiché stavamo imparando ad osservare il mondo da una prospettiva migliore, rovesciando ogni logica.
Non appena sentimmo il ritorno delle energie iniziammo a sistemare quella minuscola baita lasciata in totale stato di abbandono ma che tuttavia esercitava su di noi un’attrazione magnetica. E così, pulito al meglio l’interno ed accese la cucina e la stufa, preparammo all’esterno un bivacco, accendendo un fuoco enorme per festeggiare la nostra ultima sera tra i Lagorai, mentre davamo fondo alle riserve alimentari. Il suono dei tuoni era ancora lontano ma il bagliore dei lampi illuminava di tanto in tanto il cielo tornando a minacciare pioggia. Il vento soffiava deciso e teneva a bada le nuvole cariche, portando però con sé l’odore di terre lontane bagnate dall’acqua. Fu verso la mezzanotte che le prime gocce iniziarono a cadere, convincendo le ragazze che fosse giunto il momento di infilarsi nella tenda montata sul lato destro della malga. Peppe invece era curvo sul tavolo a cercare un percorso che ci riportasse l’indomani a Levico.

Mi sedetti accanto al fuoco, sotto una pioggia leggera. I miei occhi erano stanchi ma sentivo nel cuore la forza per poter passare ancora giorni e giorni così, sempre in movimento su quelle montagne. Non facevo che pensare a noi, e a chi come noi rappresenta ancora oggi un momento di ribellione dagli schemi.
E così in questo mondo, quando tramonta il sole, mentre si sta seduti intorno ad un fuoco, ad osservare gli immensi cieli stellati di queste montagne, ascoltando il canto delle cicale, d’estate, potevo sentire tutta questa terra distendersi fino agli abissi più profondi. La mia mente volava alle strade che corrono e a tutte quelle persone che anch’esse corrono, intrappolate nel tempo che passa e muta, come la stella della sera che tramonta, spargendo le ultime scintille di luci sulle valli, prima dell’arrivo della notte buia che benedice la terra e oscura i fiumi e avvolge le vette. Pensai che nessuno potrà mai sapere cosa accadrà a nessun altro se non il desolato stillicidio della vecchiaia che avanza, e poi ripensai a noi, al nostro esser sempre in viaggio ed in continuo mutamento. A noi e a quelli come noi, che non importa il dove, purché si viva in fuga dall’immobilismo della quotidianità.

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