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La montagna cambia pelle in questa stagione. La sua metamorfosi è lenta, ma avvolge di bianco l’intero territorio. Evolve e da nuova forma alle cose. La roccia, i pendii, i lunghi sentieri che attraversano le creste più o meno dolci che siano, si trasformano rispetto alla stagione passata. In questa metamorfosi anche il nostro approccio ad essa si conforma su nuovi passi, e cuore e nervi devono tendere ora a nuovi sforzi, differenti.

In una giornata drammatica per l’Appennino italiano, dove abbiamo perso 4 compagni di strada tra il Gran Sasso e la Majella, eravamo anche noi sulle quote più alte d’Abruzzo. Come loro, cercavamo anche noi il nostro momento con l’avventura ascoltando l’urlo della montagna che ci chiamava a sé. Una voce dolce, sensuale, che ci spingeva a salire verso di essa per poter godere dei silenzi che solo lassù hanno un eco di pace.

La montagna ha la sua filosofia, e pretende il suo rispetto non come dea avida di potere, ma come ambiente nuovo in cui noi siamo e ci sentiamo ospiti.

Quella maledetta domenica non sapevamo cosa sarebbe accaduto sulle cime che potevamo scrutare sull’orizzonte davanti a noi, ma eravamo ben consapevoli che la mutazione era in corso e, pertanto, sapevamo di dover esser pronti a tutto. Con passo deciso e fermo avremmo dovuto attraversato tutti gli strati di pelle che la montagna cambiava. Il bosco, reso umido dalle piogge della notte precedente, la roccia, infida e gelata dai venti in quota, la neve, prima soffice poi sempre più indurita dal freddo, fino alle lastre di ghiaccio lungo il percorso che conduceva in vetta al Monte Meta, lungo tutti gli ultimi metri che ci separavano dalla croce in acciaio, ben saldata a terra.

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Partiti dai Prati di Mezzo, abbiamo risalito il sentiero che si arrampica alle spalle del Baraccone e delle piste da sci, ancora ricoperte dal foliage autunnale. Man mano che prendevamo quota, abbandonando il bosco verso le roccette che conducono al Passo dei Monaci, un insolito calore riscaldava l’ambiente intorno a noi. Il sole si stava ancora alzando ma tutto prendeva colore e ogni cosa rilasciava un senso di serenità che, tra sorrisi e sguardi sempre carichi di meraviglia, induceva le nostre gambe a muoversi verso la vetta del Meta.

Giunti al Passo, il muschio umido lasciava posto ad una neve residua dei giorni scorsi, molliccia, tanto da poter affondare le gambe fino alle ginocchia. Una coppia di escursionisti che ci precedeva, ci fermò per chiederci se fosse il caso di proseguire essendo sprovvisti di ramponi e della giusta attrezzatura da invernale. Li invitammo a scendere optando per nuovi sentieri meno complessi, mentre noi calzammo i nostri ramponi, continuando la progressione verso la vetta. I nostri piedi iniziavano ad avvertire il grip nel primo ghiaccio incontrato, ed il cervello teneva botta dandoci sicurezza durante l’ascesa. Era un ghiaccio infimo, indurito dalla quota, ma che al suo interno si sgretolava come polvere, celando una neve pessima per questo tipo di progressione.

Giungemmo in vetta dopo poche ore di cammino, felici per esser riusciti a salire fin lì e rendemmo grazie ad una nuova giornata che ancora doveva terminare. Dalle vette del Pnalm al Velino-Sirente, dal Graan Sasso alla Majella, lo sguardo si perdeva in lungo ed in largo, scrutando l’intera metamorfosi della montagna che inizia a vestirsi di bianco, fino alla prossima primavera. Eravamo in estasi, e restammo in silenzio a goderci il momento, rotto solamente dal vociare acuto di una coppia di escursionisti troppo concentrata a rendere social un momento da vivere a perdi fiato. Così ci rimettemmo in cammino.

Il nostro percorso, infatti, non era terminato, e continuò prima verso la morbida cresta del Monte Meta e poi, tornando alla croce, ricominciammo a scendere verso il Passo dei Monaci.

Avevamo davanti a noi ancora una buona dose di luce. Così decidemmo di proseguire lungo la cresta delle Mainarde che dal Passo si andava a distendere verso est, con un movimento sinuoso e morbido, tra dolci saliscendi. Più avanzavamo e più quello spettacolo di paesaggio si estendeva mostrandosi in tutta la sua bellezza. Le catene del Meta e delle Mainarde si incontrano in quota in un abbraccio selvaggio, rude, che taglia in due l’Abruzzo e il Lazio. I sentieri che lo attraversano hanno misurato nel tempo il passaggio di nomadi, pastori, briganti e soldati. Un percorso secolare che non muta perché, fortunatamente, lontano dal mainstream moderno della montagna stessa, letta non più come occasione di pace e sacrificio, ma come trofeo da esporre, oggetto di mercato a discapito di partite iva e social network. Tutto ciò da cui rifuggiamo, per quanto desideriamo raccontarvelo.

Furono oltre 18 i chilometri che attraversammo sulle creste del Meta e delle Mainarde, attraversate dal Passo sino alle Coste dell’Altare, attraversando le cime del Monte A Mare e della Metuccia. Fu il passaggio umano all’interno della mutazione genetica e stagionale delle nostre montagne. Trattandole con rispetto, attenzione e cautela fummo rispettati ed accompagnati all’uscita, seppur con qualche livido dovuto a scivoloni su passaggi impervi. E’ così che va, dai rispetto, vieni rispettato. Sali e scendi portando via solo ricordi. Lei è lì e ci resterà per sempre. Non c’è trofeo alla fine né alcun premio da ritirare. Possiamo solo rendere grazie per il momento e sperare che il nostro corpo ci porti a collezionarne sempre nuovi.

Continuando il cammino discendemmo verso il Belvedere Antinozzi ed il Valico della Crocetta per poi attraversare la lunga valle in quota tagliata dal rio di Fonte Fredda, fino a tornare sui passi che conducono agli impianti e alle piste da sci.

Eravamo contenti, ma non sapevamo ancora cos’era accaduto a quei ragazzi che come noi, intorno a noi, sulle montagne abbandonavano i loro corpi.

Non condanniamo. Non giudichiamo. Ne conserviamo dentro il dolore ben consapevoli che poteva accadere anche a noi. Con rispetto, sempre.

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