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Sabato pomeriggio, con in cielo il sole più caldo dall’inizio dell’anno, ci mettemmo in viaggio appena dopo pranzo. L’aria aveva quella carica di elettricità che solo le giornate calde di primavera sanno dare, e noi eravamo pronti a respirare le più ampie boccate di quella libertà. Entrammo in autostrada, diretti a nord, per oltrepassare il confine campano, aggirare i Monti del Matese e muoverci verso le zone selvagge della catena delle Mainarde, in Molise.

I raggi del sole attraversavano i finestrini delle nostre auto, mentre con lo sguardo osservavamo cambiare il paesaggio man mano che avanzavamo. Foreste, montagne, colline e orti, fiumi, ruscelli e la strada dritta davanti a noi, contribuivano a fare da sfondo ad una nuova avventura che aspettava solo di esser vissuta.

Dopo qualche ora arrivammo finalmente a destinazione, spinti più dalla voglia di ritrovarci già lì anziché dall’affondo del piede sul pedale dell’acceleratore. Il sole era ancora alto su nel cielo, e il giorno aveva dinanzi a sé ancora un numero sufficiente di ore per lasciarci godere del calore della primavera. Così, dopo aver scaricato le auto per preparare il campo base, non perdemmo occasione e ci lanciammo nelle gelide acque del Lago San Vincenzo. Era un frastuono di risa e imprecazioni, di felicità e blocco della circolazione.

Una volta fuori ci sedemmo al sole e, come lucertole, assorbimmo tutto il calore di quel fine giornata, mentre in controluce Gigia continuava a far girare l’hula hop, creando disegni di luce e ombre, mentre tagliava i raggi del sole. Asia e Willy, nostri compagni di strada erano diventati ormai dei bambini in preda ai deliri da eccessi e picchi di felicità, e non smettevano di rincorrersi. Anche la sensazione di influenza che aveva Peppe fu sconfitta da quel momento.

E intanto il sole scendeva, lasciando il posto ai colori pastello di un tramonto che finalmente era tornato a far il suo lavoro, dopo un inverno pallido ed estremamente lungo, e con il saluto al sole venne a trovarci la sera. L’aria, ora più fredda, accelerò le operazioni di montaggio del campo base e, con l’arrivo del resto del gruppo, eravamo finalmente pronti a vivere una nuova nottata intorno ad un fuoco di campo.

Una chitarra, due percussioni, una boccia di vino e del pane e formaggio. In poco era tornata l’atmosfera dei giorni migliori che ci accompagna quando siamo insieme sotto cieli carichi di stelle, seduti su un prato verde, a condividere i nostri stati d’animo. E poco importava del carico di stress accumulato durante la settimana, o la consapevolezza dei ritmi che da lì a qualche ora avremmo dovuto riprendere tornando a lavoro. Sulle sponde di quel lago il tempo rallenta, e assume tutta l’astrattezza del suo stesso concetto, sedendosi accanto a noi e facendo festa insieme. Sarà la notte, con la sua atmosfera, sono senz’altro gli amici, che ti fanno sentire a casa in qualunque posto del mondo ti trovi, o potrebbe essere la combinazione della chimica degli elementi che ci travolge…

Delle voci, nel pieno della notte, più volte ci svegliarono. Erano pescatori arrivati sulle sponde del Lago San Vincenzo all’incirca alle 4 del mattino, e dalle nostre tende riuscivamo a sentire bene ogni parola che pronunciassero. La suggestione dell’oscurità notturna in un primo momento attivò dei campanelli d’allarme, rivelatisi tutt’altro quando alle 7 ci svegliammo e li trovammo sulla sponda opposta alla nostra posizione. Preparai il caffè nell’attesa che tutti si risvegliassero e che giungessero altri compagni con i quali avevamo appuntamento proprio per quella mattina. Il sole lentamente si alzò ricominciando a scaldarci mentre intanto smontavamo il campo base, e giusto in quel momento arrivò l’auto dei ragazzi carica di cornetti caldi per far colazione insieme.

Con il tempo abbiamo imparato a capire i nostri tempi e non ci sorprendemmo se si fecero le 11 prima di ritrovarci alla base del sentiero, nonostante avessimo programmato di muoverci entro e non oltre le 9 di quel mattino. Scegliemmo con cura uno dei sentieri che il parco propone, ben consapevoli che la rete sentieristica fosse precaria, e per lunghissimi tratti assente, e ci mettemmo in cammino attraverso una lunga carrareccia in pietra, percorsa nel tempo di più dai taglialegna che da escursionisti e avventurieri. Una lunga carrareccia, ben segnata dalla simbologia del Cai, ma che alla sua estremità abbandonava ogni senso logico e segnale di pista, lasciando che ci muovessimo immaginando una via da seguire. Sfruttammo tutto l’intuito e la creatività che seppe tirar fuori Genno per tracciare il percorso che ci avrebbe condotto sino alla base del Monte Marrone, circondati dalle enormi pareti del blocco delle Mainarde.

Avanzammo oltre un’ora nel mezzo del bosco di faggi, seguendo gli alberi segnati dai falegnami e attraversando enormi pozze di fango in cui i tantissimi cinghiali presenti hanno grufolato fino a scavare vere e proprie buche, e nelle quali ovviamente finimmo dentro. Senza però demordere, e qui sta la vera forza di volontà dell’essere umano dinanzi ad una sfida, continuammo ad avanzare, nonostante ora il fianco della montagna si aprisse a noi in tutta la sua asprezza, ripido, scivoloso, in un bosco fitto che limitava l’orientamento a poche aperture tra gli alberi.

Giunti in una radura, valutammo le condizioni e ne approfittammo per mandar giù tanta acqua quanto era ora il calore che il sole sprigionava. Tra la fitta rete di alberi, spingendo lo sguardo verso l’orizzonte, oltre la salita che si arrampicava dinanzi a noi, qualche macchia azzurra di cielo, lasciava intendere la via da seguire per attaccare la cresta che conduce alla vetta e alla meta del nostro obiettivo. Occorreva decidere se avanzare o meno, poiché erano scomparsi anche gli alberi tracciati e il sentiero si presentava devastato da alcune frane che avevano sradicato decine di faggi, crollati lungo quel fianco della montagna in cui c’eravamo noi.

Un sorriso e una smorfia di sofferenza, e già proseguimmo verso quella cresta, arrancando ora, e spingendo più forte poi. In poco toccammo le rocce che fummo costretti a superare aiutandoci con le mani, e le affrontammo senza crucciarci troppo, poichè le nostre avventure sono sempre così, in un mix di felicità e difficoltà da superare per avere ulteriore felicità. Così come è la montagna, che non ha l’aspetto di una figura benevola e pronta ad accoglierti in grembo, ma ti stravolge e ti costringe a misurarti con la tua dimensione reale e con la sua mole infinitamente più grande di un singolo essere umano. È questa l’umana avventura, e non ha nulla a che vedere con l’estremo, ma ha che fare con i limiti e le sfide che la nostra immaginazione continua porci per ingabbiarci nei vincoli della pigrizia, o della paura. L’avventura è lo spirito con il quale si affrontano giornate e momenti come quello che vivemmo e che superammo grazie alla caparbietà collettiva.

In cima a quella montagna consumammo rapidamente il pranzo e ci rimettemmo in marcia, dovendo intercettare nuovamente la strada percorsa all’andata. Il sentiero che intuimmo tagliò in un primo momento ed in maniera ripida la lunga cresta che attraversammo pochi attimi precedenti, costringendoci, in alcuni momenti, a lunghe scivolate seduti a terra. Ciò fu però utile a guadagnare il tempo necessario ad accelerare il passo e a correre nuovamente al lago per stemperare il calore estivo di quel pomeriggio.

Giunti di nuovo sulle rive, ci stendemmo al sole, e tra una birra e un tuffo venne il momento di ripartire.

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