Partenza.
Ci sono storie che diventano leggenda, e quelle pagine di storia hanno persone che diventano icone, miti delle generazioni che vivono quei tempi.
“Per l’animo avventuroso di un uomo, nulla fa più paura di un futuro certo”, con queste semplici parole Christopher Johnson McCandless diventa l’eroe dei miei tempi. L’ispirazione personale che mi spinge a cercare di dare sempre risposta alla curiosità, a non smettere di continuare il mio viaggio alla ricerca della bellezza e della sua essenza. Quella che trova dimora nella Natura, quella pura, lontana dalle opere dell’uomo.
Doveva essere proprio un bel posto questa Terra prima che iniziassimo a divorarla con voracità. Montagne, boschi, fiumi gelidi e laghi misteriosi, e poi ancora deserti di ghiaccio e di sabbia, baie, scogliere e mari impetuosi. Non sarebbe bastata e non basta tutt’oggi una vita sola per riuscire ad esplorarla tutta, per toccare con mano la diversità che custodisce nel suo ventre, eppure per alcuni, come per me, il senso stesso del nostro viaggio sta nel non smettere di meravigliarsi davanti a queste opere monumentali.
È con questo spirito che è iniziato il nuovo viaggio.
Siamo saliti a bordo della nostra Dacia con il solito ritardo rispetto ai tempi che ci eravamo dati. Con il senno di poi, visto il meteo, mai decisione fu presa più saggiamente.
Il caldo delle giornate di metà agosto era diventato insopportabile e man mano che si avvicinavano i giorni della partenza avevamo la sensazione che il tempo scorresse più lento. Sarà forse stata la completa assenza di vento di quei giorni, ma osservando intorno potevo vedere gli effetti di quello slow motion ovunque. Dal tremolio delle foglie di una pianta esposta al sole, alle gocce del rubinetto che perdeva, passando per quelle di sudore che pian piano scendevano lungo la schiena, sino al volo degli insetti. Tutto intorno sembrava dirmi “fratello, dove vai?”. C’è un legame sottile tra le leggi dell’universo e le nostre vite.
La mattina della partenza il sole scaldava tutto sin dalle prime luci del mattino, e la complicità dell’afa finì per rallentare anche noi. Con calma scesi di casa, caricai la macchina e andai a svuotarla lì al parcheggio dove l’avrei scambiata con la Dacia. Tira fuori tutto, ricarica di nuovo e corri a prendere Maria che intanto aspettava a casa il mio arrivo. Non ci volle molto, eppure l’assenza di aria condizionata diede l’impressione di un tempo infinito. Quando arrivai sotto casa sua la trovai già lì fuori ad attendermi, sorridente come sempre. Aveva gli occhi già in fiamme per il desiderio di partire. Quello stesso desiderio che da circa dieci anni coltiviamo insieme e che ci lega a doppio filo, avventura dopo avventura. Potevo leggere nei suoi occhi le stesse emozioni di ogni partenza, e già questo bastava a lasciarmi alle spalle il caldo della mattinata. Un caldo anomalo che sapevamo avremmo abbandonato lungo la strada, e che avrebbe lasciato spazio alle prime piogge che anticipano l’arrivo dell’autunno.
Svuotammo nuovamente la macchina per poi ricaricarla dei suoi zaini, dei miei, dell’attrezzatura utile nei giorni che sarebbero venuti. Mancava quindi solo passare a prendere da mangiare e poi via, in fuga sull’A1, in direzione Nord.
La meta che avevamo scelto era ambiziosa e sarebbero stati necessari alcuni giorni di viaggio prima di poter piazzare il nostro campo nel cuore del Triglav National Park in Slovenia. Imboccata l’autostrada misi in play una playlist fatta di Kenny B Simeone, Henry No Hurry, Jeffrey Foucault, Perker Millsap, Cat Stevens, Haux, Colter Wall, Caamp, Foy Vance. Cantautori dall’altro lato del mondo che mi accompagnano all’interno delle avventure. Entrammo subito nel mood, in un vorticare di emozioni ben riconoscibili. Potevo mettere a fuoco negli occhi di Maria la fiammella accesa della voglia di scoperta che divampava man mano che mettevamo chilometri tra noi e la strada fatta. Era la stessa che sentivo scaldarmi dentro, ogni volta che un aereo, un treno o un qualsiasi mezzo di trasporto mi porta in posti nuovi.
Man mano che avanzavamo potevo osservare dai finestrini l’evoluzione del paesaggio fatto di catene montuose, foreste, parchi nazionali, colline assolate e vaste pianure coltivate. Provavo a seguire quella metamorfosi naturale che spesso avevo già incontrato nelle mie escursioni e ogni luogo era il ricordo delle esperienze che mi ha formato negli anni. Ogni sentiero è una composizione di fatica e sudore, il biglietto d’ingresso che richiede la natura per vivere a pieno l’esperienza. Ho imparato a scoprirlo col tempo, insieme ai compagni e agli amici che hanno accompagnato i miei passi, condividendo la felicità che si mescola allo sforzo di raggiungere una meta. A passo lento.
Dopo oltre sei ore di viaggio eravamo nel pieno della Pianura Padana, la più vasta area di questo paese priva dei lineamenti dolci, o aspri, di boschi e colline che continuamente ricerco. Per chi viene dal sud non è semplice percepire l’influenza che le montagne hanno sullo spirito dell’uomo, eppure il nord, la sua stessa idea, è una luce lontana alla fine di un lungo tunnel buio. È il simbolo di un’idea di libertà estrema, il pensiero anarchico lontano dalle leggi dell’uomo che lasciano il posto alle forze della natura.
Osservavo Maria guardare fuori e sembrava cercasse di contare l’infinità di girasoli coltivati. Assorta com’era nei suoi pensieri mi sentivo come un intruso a chiederle le sensazioni che stava avvertendo, o quali immagini le si stessero formando nella testa, sebbene ero convinto che il paesaggio e la sua estetica potesse in qualche modo rapirla e lasciarla sognare grandi avventure. Gli spiriti avventurosi non sognano che diventare gli eroi delle storie che immaginano e ricercano incessantemente, pronti a lasciarsi catapultare con senso romantico all’interno degli intrecci del destino.
La strada intanto scorreva veloce, qualche nube si addensava alle nostre spalle, e un senso di irrequietezza animava il viaggio che stavamo appena iniziando. Come Mellville anche noi avvertivamo da settimane il bisogno ardente di reimbarcarci e partire per una nuova avventura. L’idea di viaggio che sempre ho avuto è un distacco dal concreto e da ciò che è reale, un abbandono totale dei problemi e delle responsabilità che lascia spazio alla ricerca di risposte su me stesso, sul modo di osservare da un punto di vista diverso ciò che accade nella società che abitiamo, un’occasione per smettere di star seduto sulla riva di un fiume a guardare la vita che scorre di fianco. Il momento reale in cui mi accorgo di ciò potrebbe essere cambiato e migliorato, per accedere ad una conoscenza più profonda e intima, dove imparare ad accettare le sfaccettature di ognuno, arricchendomi di nuovi punti di vista per osservare il mondo, lasciandomi sorprendere dalla bellezza che caratterizza ogni cosa. Come scrive Bruce Chatwin “Il viaggio non soltanto allarga la mente: le dà forma”.
Roma, Firenze, Bologna, Ferrara, Padova, e poi ancora Venezia, lungo il golfo adriatico che porta alla frontiera di Trieste. Mettemmo dietro di noi i primi 850km prima di fermarci per la notte, ospiti di una famiglia emigrata per lavoro anni fa ed ora perfettamente in armonia con l’ambiente urbano. Dopo l’abbondante cena e qualche bicchiere di prosecco locale passammo la serata a raccontare dei viaggi fatti, come membri di una comunità di viaggiatori capaci di vivere esperienze comuni nonostante gli anni che ci separano. C’è chi parte e ritorna e c’è chi parte senza far più ritorno, senza tuttavia smettere di muoversi nel mondo. Abbiamo tutti una radice nomade nel nostro istinto più profondo, che è figlia della nostra evoluzione. Un tempo per necessità di sopravvivenza, ed oggi legate al bisogno di dare risposte a domande esistenziali che hanno una voce fioca che si confonde nel trambusto della quotidianità.
Sfruttammo il giorno seguente per fare una lista delle ultime cose da mettere nello zaino prima di incamminarci verso la Slovenia. Bombole del gas, batterie e carte topografiche del Parco Nazionale del Triglav e delle Alpi Giulie. E così tra una passeggiata sul molo ed una nel bosco, la giornata passò rapida, nonostante i 15km fatti a piedi per la città di Trieste. Avevo la sensazione che il tempo volesse finalmente venirci incontro e muoversi con noi. Eravamo pronti a immergerci nella nostra avventura, restava solo da attraversare la notte che invece si accompagna ai pensieri che ne dilatano il tempo, attraverso ricordi, emozioni e immagini. Momenti che sono il ritratto della resilienza dei nostri giorni, di una generazione che non si spegne, di desideri che si alimentano condividendo la passione per l’avventura e la scoperta. C’è l’ovest della letteratura americana, di nuove frontiere da raggiungere. Arrivi e partenze verso nuovi orizzonti. C’è la fuga di Melville sulla baleniera, quella di London in Alaska, il pollice alzato di Kerouac in cerca di un passaggio verso le nuove frontiere. C’è il silenzio dei vivi e la voce dei morti. C’è la passione, il vino, le radici e il tempo non ordinario, non quotidiano, lento, vivo. Tutte queste sensazioni erano vive e sentivo di poterle toccare allungando una mano nel vuoto di quella stanza buia, mentre nel silenzio Maria dormiva accanto a me. Continuavo a pensare a tutte le tante, forse troppe cose che speravo di incontrare lungo il viaggio, e mi sentivo confuso dalla frenetica riproposizione di immagini legate a luoghi per me immaginari che volevo vedere, per emozionarmi continuamente come una corsa a ostacoli tra una stella e l’altra prima di precipitare. Finii invece per maledire la notte e quello che lascia, ben consapevole che in quel momento non potevo condividere altro che la mia stessa confusione.
Oltre la frontiera. Benvenuto in Slovenia
Fu una nottata passata quasi in bianco, e alle prime luci mi alzai desiderando null’altro che riprendere la strada. Ci volle però ancora un po’ prima di partire. Maria riposava ancora e così ne approfittai per mettere su il caffè, continuando a pensare a cosa avremmo incontrato sul percorso. Ero ossessionato da quel pensiero, e fu proprio quando finii quella tazzina, seduto sul patio che dava sul giardino di casa, mentre osservavo il vapore addensarsi nell’aria fresca dell’alba, che decisi di dare un taglio netto ai pensieri. Feci una scelta radicale, via i tutti i capelli che ormai facevo crescere da qualche anno. Lo feci al fresco, sentendo finalmente l’aria che tornava ad accarezzarmi la testa.
Quando entrai in bagno e mi vidi allo specchio ebbi la totale sensazione di aver ritrovato quel me stesso abbandonato qualche anno fa, smarrito forse, lungo la strada. Ne riconobbi le pieghe del sorriso, la curva degli occhi, la testa tonda. Ero pronto, sentivo fosse finalmente giunto il momento di andare.
Entrai in camera e in silenzio iniziai a preparare lo zaino, Maria era fuori in giardino e quando rientrò bastò guardarci negli occhi per capire che entrambi ci sentivamo pronti a rimetterci sulla strada. Preparammo un altro caffè, salutammo i nostri amici e prima che ce ne rendessimo conto eravamo già in marcia, sulla linea che separa i confini. Superato il varco e percorse le prime decine di chilometri mi sentii già travolto e inglobato dal paesaggio che avevamo intorno. A destra e sinistra si aprivano le ampie colline verdi, le foreste e i boschi si estendevano a perdita d’occhio, le cime più alte e lontane creavano una cornice tra noi e il paesaggio, e qualche piccolo villaggio che potevamo riconoscere a distanza grazie alle sagome dei campanili illuminati dal sole. C’è grazia e delicatezza in questi luoghi, è la natura che ha bisogno della bellezza, quella che si genera dal basso risalendo verso le cime più alte, mentre la forza e l’energia dei venti, delle piogge, del ghiaccio e delle nevi ne scolpisce i profili taglienti che si stagliano verso l’azzurro profondo del cielo, ben oltre la coltre di nebbia.
Le montagne hanno su di me il fascino dei luoghi misteriosi che ho imparato a conoscere sin dall’infanzia, quando i miei genitori mi ci portavano a fare il carico d’aria pura, a respirare i profumi del bosco e a dilatare il tempo sdraiati su un prato verde, con gli occhi persi nel cielo più azzurro. A volte per qualche ora, altre volte per giorni.
Dopo quasi un’ora di cammino arrivammo nella Riserva Nazionale Izvir, nel borgo di Vrhnika, seguendo le sponde del Močilnik, fino alle sorgenti nascoste che caricano d’acqua il fiume Ljubljanica. Ci arrivammo risalendo l’antica carrareccia che conduce in cima alla cittadina, e dopo aver parcheggiato l’auto e attraversato un ponte in legno e acciaio, ci ritrovammo a passeggiare lungo le rive di un lago verde smeraldo circondato dai boschi. Tutt’intorno sembrava non ci fosse nessuno. Una vecchia casina in legno scuro, con le indicazioni in sloveno per i turisti che raggiungevano quel luogo, era ricoperta da un fitto strato di muschio verde sul tetto e sulle pareti, dando a quel parco un tocco leggendario, fantastico, dal quale sarebbero potuti spuntare nani e folletti. Lo girammo intorno senza seguire altro che un vecchio sentiero ricoperto di rovi e sterpaglie, per poi trovare, stupiti, un angolo nascosto dalla vegetazione, con una sponda priva d’acqua, ricoperta di pietre bianche che raffreddavano le luci dell’aria. Era il posto perfetto per una pausa pranzo immersa nella natura.
Allestimmo quindi un piccolo punto fuoco e cuocemmo un risotto pronto ai funghi porcini. Era tutto perfetto, immacolato, nonostante l’arrivo di una pioggerella leggera che anticipava il forte temporale che sapevamo ci avrebbe raggiunto a breve. C’era elettricità nell’aria, la si poteva sentire nel vento che cresceva man mano che l’addensarsi di nubi nere avanzava. Non potevamo farci cogliere impreparati sebbene avessimo voglia di farci trascinare dagli eventi. Con estrema leggerezza.
Appena fummo in auto iniziò un vero e proprio diluvio. Una di quelle piogge scroscianti di fine estate che aprono le porte all’autunno, ai suoi colori e i suoi profumi. C’era pace nonostante il tuono o e il lampo, la potevamo sentire entrambi restando in silenzio ad ascoltare mentre l’acqua picchiava sul tettuccio della Dacia e, fermi in quel parcheggio, il tempo sembrò fermarsi. Era un ritmo veloce, appesantito dalla grandine che scendeva insieme alla pioggia. L’impeto che si può percepire è un’energia simile ad uno spirito vitale, come il fuoco, un terremoto o la forza del vento e delle onde.
Mi è sempre piaciuto camminare sotto un la pioggia leggera o burrascosa, aspettando il sole che ogni volta ritorna. Da ragazzo e poi da adulto, con gli amici di sempre, ho vissuto avventure e momenti unici, fatti di tensione e di spiritualità. Anni fa, mentre attraversavamo la catena dei Lagorai, lì sulle Dolomiti, un temporale separò il gruppo, le difficoltà del terreno ci distanziarono di oltre trenta chilometri. Era sera e i telefoni non avevano segnale per poterci mettere in contatto. Restammo ad aspettare incerti sulle sorti di ognuno con il timore che potesse capitare qualcosa di brutto. Eravamo insieme sulla strada già da quattro giorni, la sintonia tra noi era amplificata dalle emozioni condivise, e perderci fu come perdere qualcosa di sé. Insieme a Bino iniziammo ad incamminarci sul sentiero già percorso mentre una restante parte si incamminò verso il rifugio più avanti. Ci eravamo separati da un’altra parte di noi e dovemmo mantenere una forza d’animo maggiore perché non ci saremmo mai perdonati se fosse accaduto qualcosa di grave. Dopo circa un paio di chilometri, affacciati su una delle numerose valli a ridosso di quella catena montuosa, ritrovammo la linea e riuscimmo a metterci in contatto con l’altra metà di noi, al riparo in un bivacco della prima guerra mondiale, infreddoliti ma ancora in forze. Ci demmo appuntamento per l’indomani, al rifugio sul Passo Manghen. Il ritorno sui nostri passi, per quanto bagnati fin dentro le scarpe ci scaldò i cuori, rimanemmo in silenzio a pensare insieme la stessa cosa. Lo potevo vedere dagli occhi alzati al cielo di Bino, mentre la pioggia non smetteva di scendere, e quando finalmente ci ricongiungemmo con gli altri al rifugio fu subito festa, fatta con parapampoli e grappa per riscaldarci i cuori.
Mi risollevai da questi ricordi quando con Maria superammo Lubiana correndo sul raccordo A2 che circoscrive la capitale slovena. Eravamo diretti al Hiša Kranjske čebele, l’ApiLab che ci avrebbe accolto quella notte. Arrivammo nel primo pomeriggio, il sole tornava a farsi spazio tra le nuvole e le nebbie risalivano i boschi che attraversavamo creando un’atmosfera mistica, avrei voluto abbandonare il volante e risalire la collina più alta per osservare con i miei occhi quanto quel paesaggio sembrasse dipinto. Appena entrammo a Višnja Gora, quella cittadina non si presentò con il giusto biglietto da visita. Le case giù nel fondo valle dovevano essere abbastanza vecchie pensai, ma non appena iniziammo a risalire i tornanti che conducevano al centro del borgo, quella sensazione di abbandono lasciò il posto ad una sensazione di grazia e pace. I gerani rossi, rosa e viola, esposti sulle ringhiere delle finestre di quelle piccole case dai colori chiari, erano la cornice di un quadro ben esposto alla luce del giorno e davano luminosità e vitalità al paesaggio urbano, quasi addormentato, in attesa di ritornare a respirare all’aria aperta dopo il temporale. La piazza centrale, con l’edificio storico al centro aveva la forza monumentale di un museo e la chiesa, con il classico campanile dal tetto spiovente rivolto al cielo, ci accolse con il benvenuto che aspettavamo.
Sbrigammo in fretta le pratiche burocratiche e posata gran parte dei bagagli nella stanza, costruita in legno come cella di un grande alveare a blocchi sovrapposti, scendemmo giù nella piazza per brindare con una birra gelata, appoggiati alla balconata che dava lo sguardo a tutto il paese e alle foreste che lo circondano, attraversate dalla coltre di nebbia che andava diradandosi man mano che il calore del sole tornava a scaldare la vita in quell’angolo di Slovenia.
Risaliti in auto ci fiondammo nuovamente in autostrada, diretti verso Lubiana, per perderci ed esplorare quella città che non conoscevamo affatto. Mantenendo il temporale alle nostre spalle, riattraversammo il grande raccordo per entrare in città dalla porta principale. Quando fummo per quelle strade, lo spirito della città ci mise poco ad inglobarci. Doveva esserci qualche festa di fine estate, poiché in ogni angolo apparivano stand allestiti che cucinavano prodotti tipici, e tra una degustazione e l’altra ci ritrovammo a passeggiare con la birra che scaldava l’anima.
Le città attraversate dai fiumi, come quelle appoggiate sul mare o sul bacino di un lago hanno un’atmosfera diversa non solo dettata dall’armonia del paesaggio, ma soprattutto per la capacità di tener vivi i pensieri dei suoi cittadini. Sono cresciuto in una città come tante, che ha il sapore della periferia, con poca grazia, incapace di stimolare il pensiero libero e creativo dei giovani. Un luogo senz’anima, urbanizzata al punto tale da non aver più spazi verdi e fruibili, dove il grigio del cemento ci avvolge come una benda sugli occhi, rendendo ciechi noi abitanti. Sono convinto che il sistema città abbia fallito e la cementificazione abbia imbruttito ogni individuo, costretto a farsi spazio a spallate per trovare il suo posto nel mondo. Abitazioni su abitazioni che stringono le arterie stradali rendendole buie, lontane dalla vitalità del sole che irradia vita su di noi e che non permettono più di godere dei colori del tramonto. Sovrappopolate di uomini e mezzi che rendono l’aria irrespirabile, generando malumore e nevrosi a causa della puzza di smog e del traffico sregolato che si srotola tra le strade sporche. Dovremmo avere più spazio vitale e concederci il tempo di distendere i nervi induriti dalla quotidianità, osservando le luci fredde dell’alba o quelle calde della sera, respirando l’aria fresca del vento che muove gli alberi carichi di ossigeno, e non essser costretti a chiuderci dentro case buie senza poter neanche contemplare in cielo il movimento delle nuvole, o il volo degli uccelli.
Passeggiando per Lubiana io e Maria ci sentivamo bene, camminavamo senza sentire fatica, presi a rincorrere luci e sogni che brillavano al chiarore fioco del tramonto. In giro si potevano osservare donne e uomini provenienti da ogni angolo d’Europa, differenti se pur simili, presi anche loro dall’unico desiderio d’esser rapiti da quella città. C’era musica, c’era chi ballava tra gli stand e chi strimpellava chitarre per qualche spicciolo. Pittori seduti sotto i porticati dei vicoli nascosti al lungofiume, che immortalavano quella vitalità, e fotografi che giungevano da chissà dove, in attesa della luce giusta per avere il proprio scatto da portare a casa.
Si fece notte e ancora ci rincorrevamo per le strade presi dall’euforia della bevuta. Le luci della città si muovevano distorte, dilatate nello spazio tempo, come se le osservassi seduto su un sedile passeggero in un’auto che sfrecciava veloce. Avevo scattato però le immagini che avevo pensato prima di partire e sentimmo insieme il momento di rientrare in alveare per ripartire al più presto l’indomani. Avevamo la consapevolezza di aver fatto il pieno di quella esperienza ed eravamo desiderosi più che mai di chiudere la parentesi “città” per reimmergerci nella natura selvaggia del Parco Nazionale del Triglav. Ritrovammo così la direzione per recuperare la Dacia nel parcheggio sotterraneo e ci mettemmo nuovamente in autostrada, diretti a Visnja.
Quella notte, come la precedente a Trieste, la passammo svegli a raccontarci le sensazioni provate e immaginando il nostro futuro insieme in una qualsiasi altra città del mondo, provando a tracciare i profili delle nostre evoluzioni come persone nel mondo, e ci sentivamo felici poiché vivevamo realmente quello che desideravamo, soli, oltre confine, in un alveare in legno.
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Il Triglav
Ogni fase della giornata ha il suo rituale. Al mattino, così come al tramonto, è possibile vivere quelli dalla simbologia più forte, dove senti l’energia attraversarti prima e lasciarti poi, seguendo il ritmo della Terra e il suo ruotare intorno al sole. I primi raggi, l’acqua fredda sulla pelle, l’odore del caffè e quello della frutta, sono riti di passaggio ai quali spesso non si concede il giusto tempo, e di conseguenza il giusto valore.
Quel mattino ci alzammo presto e, aperta la porta del nostro alveare, mi affacciai alla grande finestra che dava sui monti di Visnja rimanendo quasi in contemplazione delle gocce di condensa che scendevano dalle vetrate. Era una fresca mattina autunnale che iniziava a riscaldarsi e la lenta discesa di quelle goccioline contribuiva a dare pace a tutto. Ci affrettammo a richiudere gli zaini, facemmo una colazione abbondante visto il viaggio che avevamo davanti e senza accorgercene eravamo già ripartiti verso nord, in direzione del Triglav e delle sue foreste; ne sentivamo anche ora il richiamo, nonostante le centinaia di chilometri che ancora ci separavano.
Lo stereo della Dacia passava Father and Son di Cat Stevens, e non potei fare a meno di osservare il paesaggio che mutava chilometro dopo chilometro con sguardo nostalgico, pensando a quante volte sarei voluto rimontare in auto con mio padre per goderci paesaggi del genere, e ripetergli “Guarda! Lo vedi anche tu quello che vedo io? Lo sai che tu mi hai dato la capacità di meravigliarmi davanti alla bellezza della Natura?”.