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Appena dopo le 10 del mattino, parcheggiammo l’auto lungo la statale che correva separando in due la montagna e collegando le due valli poste alle estremità di questo grande massiccio.

I colori dell’autunno si sono infiammati da almeno un mese, e tutto intorno a noi è riscaldato dai toni caldi delle foglie cadute con i primi venti ed i primi freddi, piuttosto violenti da queste parti.
Ci mettemmo in marcia, emozionati per aver ritrovato lo stesso ambiente dello scorso anno, intatto e preservato dall’invasione umana. Dopo circa venti minuti fummo così già dinanzi al grande cancello verde che apre l’accesso alla Foresta Reale. Questa ci appare come una gola pronta a risucchiare al suo interno coloro che vi mettono piede, e così fu per noi, che ci ritrovammo immersi in un bosco fitto di enormi faggi alti più di trenta metri, tanti da non riuscire a vedere neanche il colore del cielo alle loro spalle. Enormi fusti di legno che si intrecciavano ed oscillavano mossi dal vento gelido che soffiava quella mattina da nord est, ad oltre 50 chilometri orari. Ora scendevano spinti dalla forza del vento, ora si scontravano con altri tronchi più bassi mentre risalivano, in una serie di movimenti elastici che incutevano il timore remoto di finire travolti sotto il peso di uno di questi che non avrebbe retto alla forza potente del vento.

Attraversammo il bosco all’incirca quaranta minuti prima di ritrovarci davanti all’ingresso di un ampio pianoro. È il Piano Melanio, all’ingresso del quale vi è il rifugio abbandonato “Tutta n’ata storia”. Quando venimmo ad esplorare questa terra l’anno precedente, il clima ci intimorì con una fitta nebbia che ci impediva di guardare oltre i due metri davanti a noi e trovammo un po’ di ristoro proprio sotto le enormi querce del pianoro, dalle quali ripartimmo per raggiungere la vetta orientandoci esclusivamente grazie ad i tralicci della corrente elettrica. Quest’ultima volta invece il sole riempì l’intera vallata incredibile e potemmo finalmente trovare le tracce da seguire per arrivare finalmente in vetta.

Quell’ampio pianoro, chiuso tra il bosco di faggi e querce, era incredibilmente silenzioso. Quasi involontariamente finii col perdermi in quella quiete e tornai in me solo quando mi accorsi del suono del caffé che risaliva lungo la caldaia della moka. Monte Taburno – OttobreConsumammo un caffè amaro e ci rimettemmo in cammino seguendo il lungo percorso che, ancora asfaltato, raggiungeva la casina dei tecnici della compagnia che gestiva le linee elettriche in tutta la valle sottostante. Facilmente superata sulla sinistra, seguendo il sentiero ben tracciato, riuscimmo dopo poco a giungere llungo la dorsale che da lì ci avrebbe condotti in poco sotto la cima. Il condizionale fu d’obbligo, poichè in parte il vento ed in parte la meraviglia per gli splendidi affacci, ci mettemmo oltre un’ora per giungere al punto in cui avremmo cambiato la nostra pista per guadagnare in fretta i trecento metri di dislivello necessari a raggiungere la vetta.

Ci riuscimmo non senza fatiche, ma con la gioia di aver ancora una volta, misurato noi stessi.

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