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Risalita al Miletto per il Colle del Monaco nel Parco del Matese

Miletto è Mettersi alla prova, misurandosi con le avversità di un mondo naturale che non ti offre gentilezza né sorrisi

Non dimenticherò facilmente l’alba di domenica scorsa. E neanche Peppe, né Antonio o Andrea. Ognuno di noi infatti, non rientrò in casa dalla nottata precedente che a poche ore dalla partenza per il Miletto. Nottate movimentate, passate in giro per le strade della città come randagi in attesa di ripartire.
Al primo levarsi dei raggi del sole ci saremmo dovuti incontrare fuori lo stadio, e da lì muoverci verso i monti del Matese, raggiungendo per strada Antonio, fresco fresco trentenne. Ci incontrammo a San Gregorio per fare colazione insieme e poi in salita con le auto fino al Lago.

Appena giungemmo, le nubi di nebbia e foschia dovevano ancora diradarsi, e l’aria aveva quel friccicolio che ti prende alla schiena quando il freddo mette i brividi. Tutto, lì intorno, sembrava ovattato e lontano dal clima oscuro che avvolge le strade urbane di notte.

Parcheggiammo la prima auto lungo la strada che costeggia la chiesa di San Michele, sulla sponda nord del lago, e proseguimmo per due chilometri, sino al bivio con un diverso attacco al sentiero. Il progetto prevedeva un trekking ad anello che, risalendo i monti a nord del Lago, ci avrebbe condotti nell’alta Val dell’Esule, nei pressi del bivacco in pietra posto a circa 1400 metri slm. La salita come sempre si presentò morbida nei primi tratti, tanto da agevolare la nostra spinta e permetterci di essere in poco più di mezz’ora all’Esule.

Le condizioni meteo delle ultime settimane avevano già mutato quel luogo, e dalle nevi erano già emersi i fiori, e tutto un prato verde avvolgeva quelle forme morbide e sinuose che caratterizzano i suoli carsici di queste montagne. Anche la neve era mutata in una serie di torrenti che scendevano in picchiata verso il lago, attraversando i canaloni.

Tirammo qualche respiro, e ripartimmo via verso il Colle del Monaco, a circa 1700 mt di altezza, passando su un sentiero mai tracciato e che si inerpicava sulle rocce che risalivano la montagna. Il nostro passo fu messo alla prova – appesantiti come cinghiali dalla nottata scorsa – e solo l’evolvere della salita, che in misura direttamente proporzionale rimpiccioliva quell’ormai minuscolo rifugio, dava carburante alle nostre gambe, e soprattutto al cervello. Giunti in cima al Colle, tracciammo nel nostro immaginario una via da seguire per ritrovarci alla base del Miletto. Quella montagna, sulla quale ci affacciammo, appariva come una immensa piramide di roccia dura che s’innalzava verso il cielo e noi, ancora distanti dalla sua base, potevamo subirne tutto il fascino che la sua natura sapeva trasmettere. Attraversammo un crinale erboso che separava alcuni pianori, ed in poco fummo alla base del Miletto.

Camminavamo incessantemente da circa 2 ore e mantenevamo un buon passo, seppur distanti a tratti l’uno dall’altro. Ognuno assorto nei suoi pensieri o a combattere con una digestione ancora in attività.
Non appena fummo nuovamente tutti insieme, con le teste alte a cercar di percepire se si riuscisse a vedere la fine di quella montagna, provammo nuovamente a tracciare un percorso fuori dagli schemi, per ammirare da una parete differente il Miletto e, perché no, per misurare noi stessi ed il nostro livello di preparazione. Tuttavia, sebbene sembrò che avessimo fatto una scelta equilibrata, tra pendenze e dislivelli, in neanche 10 minuti eravamo fuori dalla rotta che avevamo immaginato, ritrovandoci così a risalire la parete orientale, in direttissima, aiutandoci con mani, piedi, bastoncini e imprecazioni. Ci fu anche il sudore, tanto caro, che scendeva dalla fronte agli occhi, a rendere il tutto più semplice.

In un’ora eravamo su, a pochi passi dalle croci disseminate qua e là in cima a quella montagna, sopra i duemila metri, e potevamo finalmente godere del vento che ci accarezzava e del sole che di tanto in tanto correva a nascondersi alle spalle di una nube, consegnandoci alla frescura dell’ombra. Erano tutti segni di un tempo che stava mutando e che non cogliemmo poiché, nuovamente, eravamo seduti a terra con un panino tra le mani ed una boccia di vino a tenerci compagnia. Quel giorno risalimmo il Miletto in appena tre ore e ci parve doveroso festeggiare una nuova tappa firmata Hikers.

Non si poteva però indugiare ulteriormente, e così, dopo aver raggiunto l’anticima, ed esser sceso ad affacciarmi sui Campanarielli, sopra il Fondacone, ritornai dal gruppo ormai pronto ad una foto di gruppo e ad una rapida discesa. Le condizioni meteo infatti erano precipitate in un attimo, imprevedibili come la natura della montagna, e in lontananza alcuni tuoni iniziarono a far tremare il cielo che intanto si era scurito. Secondo ogni manuale non bisogna mai trovarsi in cima ad una montagna come quella, priva di vegetazione e ricoperta di sola roccia, in caso di temporale. Detto fatto.

Alle prime gocce, iniziammo una rapida discesa fuori sentiero, per mantenere quanto meno vivo il progetto di chiudere l’anello che avevamo immaginato. Ciò, a causa della suggestione, della fatica e del passo personale che ognuno mantiene, aveva portato a distanziarci oltre il dovuto, sebbene riuscissimo a tenere vivo un contatto visivo l’uno con l’altro. Attraversammo rapidamente Campo dell’Arco e, non appena svalicammo per scendere ulteriormente, la tempesta, o come essa voleva presagire, svanì di colpo, lasciando spazio ai raggi primaverili del sole e ai canti delle rondini che parevano volessero prenderci per il culo.

Scendendo ulteriormente, fino all’imbocco del canalone infernale che conduce alla chiesetta di San Michele, intercettammo il gruppo che iniziò il suo rientro una mezz’ora prima della nostra ripartenza dalla vetta. Eppure nel ritrovare loro ci accorgemmo che il passo di Andrea era divenuto più lento del mio e di Antonio e Peppe che già non vedevo più neanch’io. Poi caddi, due volte, e allora nel rialzarmi finalmente li vidi raggiungermi, finché non fummo all’auto che lasciammo lì per il ponte.

Già, il ponte. Quello che fai con due auto, e lasci le chiavi della macchina del rientro in quella dell’andata, le cui chiavi sono però nello zaino di Andrea che ancora non riusciamo a vedere. Una situazione paradossale, che non si risolverà prima di una mezzora, quando finalmente rivediamo Andrea raggiungerci e che travolgiamo di voci al punto da confonderlo sullo stesso senso di quella giornata. Al punto tale da riuscire a scombussolare la sua mente come dopo un placcaggio, costringendolo a muoversi rapido per non perdere il passaggio ricevuto da una coppia appartenente al gruppo incontrato in vetta, per recuperare l’altra auto che lui stesso non ricordava dove fosse, sbagliando per due volte la strada, e allarmando la moglie del conducente che ci pregò di farli tornare immediatamente indietro. Panico e tante risate ad affievolire la stanchezza dell’impresa.

Fu così che alle 18 ritrovammo finalmente l’auto, dopo averla raggiunta a piedi, superando ostacoli crudi che non avevamo neanche incontrato in vetta, sotto il temporale, come quel branco di cani da pecore che ci immobilizzò sulla sterrata, piccozze alla mano. Fu un sollievo, e fu straziante. Fu dura e sicuramente emozionante. Ecco la montagna e la sua natura. Ecco gli Hikers e la loro avventura.

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