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L’idea questa volta era di riprendere a camminare per davvero, dopo esser stato costretto a sacrificare le ultime due settimane per cause di lavoro. Così, radunato il gruppo, concordammo insieme di ritornare in hike notturno.
Riordinata la mente e decisi a salire su leggeri, agili e veloci, programmammo in fretta e furia il da farsi, ed in poche ore fummo pronti a partire.

Ci incontrammo sotto un sole cocente di fine maggio che ci fece sudare l’anima nei soli minuti che impiegammo a percorrere la strada che ci separava. Compresa la zavorrata che ognuno di noi aveva in spalla, da sembrare carico e pronto per l’attraversamento del deserto del Gobi.

Ci fermammo ad un bar, umiliati nel profondo ma senza mostrare il minimo segno di cedimento. Impavidi.

Passò più o meno un’ora prima che ci rimettessimo in effettivamente in marcia, ma bastò poco per entrare subito nel mood di quello che ci aspettava.

Alle 18 parcheggiammo l’auto nella piazza fantasma del borgo di Croce, un paesino abbandonato negli anni ed ora inglobato dalla natura che riprende i suoi spazi, apripista del sentiero sterrato che conduce all’Eremo di San Salvatore, prima tappa della nostra avventura.

Camminammo spediti, e nonostante il calore e le zanzare riuscimmo ad essere in poco più di mezz’ora all’Eremo. Ne approfittammo per goderci le luci del tramonto dall’alto di una roccia, per poi scendere al campo base ad accendere un fuoco che ci scaldasse qualche ora. Il tempo necessario a ricaricare un po’ di energie.

Alle 3.30 del mattino, nel pieno del silenzio della notte, rotto solamente dallo scoppiettare di qualche ceppo nel fuoco, suonò la sveglia ed in poco riuscimmo ad esser pronti a partire. Una notturna è una notturna, e non c’è stanchezza che tenga.

I primi passi li facemmo spediti, seguendo il semplice sentiero che corre sul fianco della montagna, fino al bivio in cui la pista si sdoppia. Da un lato, infatti, il sentiero conduce su passo morbido, all’Eremo di Fradejanne; dall’altro, il nostro, si staglia nel fitto bosco costringendo a dover posare più volte le mani a terra per aiutarsi, e salire sulla prima cresta che conduce al Pizzo San Salvatore, cima più alta del Monte Maggioe e dei Trebulani, poco più che un migliaio di metri di altezza, ma al centro geografico di un insieme di valli e montagne, mare, fiumi, isole e vulcani compresi.

I successivi passaggi li facemmo con prudenza, costretti a doverci arrampicare su qualche roccetta per superare dislivelli più ripidi, ma illuminati da una grande luna e un’infità di stelle. C’era un silenzio incredibile. Un silenzio che fa bene e aiuta a riconciliarsi con il proprio spirito. Un silenzio che ognuno dovrebbe ricercare quotidianamente nella sua vita.

I bagliori dell’alba che schiariva l’est non tardarono ad arrivare e noi volevamo essere in vetta prima del suo completo arrivo. L’energia che sprigiona momenti del genere sovrasta ogni pensiero inutile e spinge a compiere sforzi impensabili. Così accelerammo il passo riuscendo a vivere la nostra avventura con essenzialità e voglia di wanderlust. Salimmo e discendemmo rapidi dall’anticima per poi ritrovarci sulla piatta vetta del Monte Maggiore, stanchi e felici.

Seduti sulla roccia fredda e umida, ci sedemmo a terra assaporando con cura e pienezza tutta la bellezza di quell’alba. In silenzio.

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